L’importante stimolo di Umberto Sarcinelli, Presidente dell’USSI FVG e Panathleta, ad una riflessione
Le nuove tecnologie e le piattaforme informative stanno cambiando radicalmente il mestiere del giornalista. Il giornalismo scritto versa in una crisi molto complessa e delicata, con un drastico calo delle copie vendute. Le emittenti televisive stanno trasformandosi da un lato in meri strumenti acritici di comunicazione politica o economica e dall’altro in intrattenimento al servizio della pubblicità. Il web vive un enorme equivoco: che sia sempre e comunque informazione. Sta saltando, o è già saltata, la mediazione professionale del giornalista, di cronista obiettivo dei fatti, di verificatore delle notizie, di “cane da guardia” del potere e di approfondimento dei temi. Il ruolo del giornalista è sempre più marginale. Senza un accesso certo alla professione, senza una valida scuola professionale, senza un’appropriata formazione, mal pagato, vilipeso, preda (spesso consenziente) di interessi di parte, preso di mira dalle querele temerarie, sta perdendo dignità, stima e considerazione. L’accesso massivo ai miliardi di dati del web dà al fruitore l’illusione di potersi informare “fai da te”, senza avere i presupposti culturali per discernere tra la veridicità e la congruità delle notizie e le bufale. Sta saltando anche la certificazione legale del sito informativo. Il proliferare di blog e delle piattaforme “sociali” come Facebook li sta mettendo surrettiziamente alla pari delle testate giornalistiche regolarmente registrate in tribunale e in regola con le leggi sulle e per la stampa.
Il percorso formativo del giornalista non è semplice e riguarda molti aspetti. Come base ci deve essere la vocazione, la passione, il talento (e soprattutto la curiosità), poi viene il mestiere e quindi la specializzazione. In poche parole studio continuo, aggiornamento continuo, stretta aderenza alla deontologia, volontà di indipendenza e di giustizia. Quasi un’ossessione monacale, ma con un carattere fortemente laico.
Lo sport non deroga da questa situazione, anzi, per la stessa filosofia sportiva il giornalista che si dedicava al racconto e alla cronaca sportive ha sempre avuto una marcia in più del giornalista “generalista”, una dimensione epica e narrativa che sfuma nella letteratura. Gli esempi sono molti, basta ricordare, tra gli altri, Pasolini, Soldati, Arpino, Brera, Negri, Fossati, Mura, Soriano, Galeano, Montalban, Marias, Handke. Lo sport è metafora della vita (si può anche discutere se la vita sia metafora dello sport): lo hanno rilevato intellettuali come, sempre tra gli altri, Albert Camus e Jean Paul Sartre.
Oggi assistiamo a due fenomeni, che meriterebbero ognuno una trattazione più completa e scientifica: il cambiamento del linguaggio e lo scopo ultimo della fruizione mediatica dello sport.
Il professionismo, esasperato dalla ricerca del massimo profitto, sta trasformando lo sport in puro spettacolo sportivo, con le regole della finanza e dell’economia che sovrastano le altre e soprattutto i valori. Spettacolo sportivo vuol dire esasperare la performance, esaltare la spettacolarità, piegare le regole dello sport per adeguarle alle necessità della televisione e del web. Per esempio i campi di calcio devono essere sempre verdi, anche se in inverno l’erba ingiallisce e spesso forma zolle. Allora si arriva a colorare l’erba con sostanze chimiche o a trasformare le riprese introducendo falsi colori e sovrapposizioni di immagine (e quindi dando alla pubblicità altro spazio da acquistare). Lo sport professionistico, comprese le Olimpiadi, non può permettersi stonature, critiche e polemiche, deve essere sempre eccezionale, avvincente, magico, straordinario
E i giornalisti commentatori (o conduttori) devono adeguarsi a questa esaltazione, anche perché le loro emittenti pagano fior di milioni per assicurarsi lo spettacolo (e la pubblicità annessa) e loro sono pagati da questi editori con interessi palesi e spesso conflittuali con una libera informazione. Ecco quindi che la Formula Uno diventa un circo chiuso, ammettendo solo i giornalisti che seguono sempre le gare, controllandoli con gli accrediti permanenti e trasformandoli in dipendenti o in meri conduttori dello spettacolo. Sulla stessa strada si stanno avviando anche la Coppa del mondo di Sci, le gare ciclistiche della Pro Tour e i grandi giri, mentre la Fgic sta creando un nucleo fisso di giornalisti che seguono la nazionale i calcio. Anche il Cio sta andando sulla stessa strada, come ammonisce l’Aips (l’associazione mondiale dei giornalisti sportivi). La trasformazione dei giochi olimpici nel più grande affare sportivo-spettacolare del mondo con il conseguente gigantismo organizzativo oggettivamente mette un limite alla libertà di stampa e al diritto di cronaca. Le tribune stampa hanno un numero di posti che non potrà mai soddisfare tutte le richieste. Il rischio è che la scelta sia discriminante a favore dei media che pagano o che siano più potenti.
Questi spunti sono uno stimolo per una discussione e riflessione sul futuro dello sport. È un destino inevitabile che si trasformi in uno dei due grandi modi di controllo delle società individuata per prima dall’Impero Romano, “panem et circenses”? (1 continua)