Una conviviale davvero speciale, resa ancora più bella dalla presenza della presidentessa del Panathlon di Udine, Maria Margherita Alciati, e della consigliera regionale Lucia Buna.
Ma speciale anche l’ospite d’onore della serata: non capita tutti i giorni infatti che il relatore della conviviale sia un panatleta; è stato davvero bello quindi ascoltare il nostro socio Mattia Tirelli raccontare della sua esperienza, che si può a pieno diritto e senza timore definire davvero straordinaria. Perché Mattia è un finisher del Tor des Geants, l’endurance trail più duro al mondo. I Geants sono le quattro vette che si vedono lungo il percorso, nell’ordine il Monte Bianco, il Cervino, il Monte Rosa e di nuovo il Monte Bianco, che annuncia l’imminenza del traguardo.
Per capire di che si tratta bastano pochi numeri: 330 chilometri, tutti sopra i 2500 metri slm, un dislivello positivo di 24.000 metri, da completare entro 150 ore. I numeri sull’orologio GPS che ha accompagnato il nostro socio nell’impresa sono ancora più impressionanti, e segnano 373 chilometri e 26.000 metri di dislivello in 146 ore di gara.
Per arrivare alla fine bisogna superare 40 colli, facendo affidamento su 7 basi vita (ad ognuna delle quali scatta un cancello di tempo, superato il quale il concorrente è fuori gara), e 40 ristori. Ogni concorrente può gestire in autonomia la propria gara, decidendo quando e come fermarsi, dormire, mangiare, farsi curare o rimettere in sesto dai preziosi medici e fisioterapisti presenti nel corso della gara.
Fida compagna di gara la borsa, che i concorrenti trovano di volta in volta nelle diverse basi vita, in cui trova posto tutta l’attrezzatura loro necessaria per portare a termine l’estenuante impresa: le scarpe e i calzini (due e cinque paia, testati a fondo, fondamentali), abbigliamento stratificato per ogni clima, la torcia frontale, i device elettronici con il necessario per ricaricarli, le racchette (leggerissime e pieghevoli) e il pettorale, logoro nonostante sia di materiale resistentissimo per la prolungata esposizione alle più avverse condizioni climatiche. Sempre addosso invece l’indispensabile zaino di autogestione, capace di trasportare 8 litri d’acqua e tutto il necessario per arrivare da un punto vita all’altro, dal cibo all’equipaggiamento.
Così, dopo mesi (e centinaia di chilometri, in diurna e notturna) di preparazione in alta quota sulle Dolomiti friulane e venete arriva il momento di affrontare il percorso, che si snoda sulla alte vie 1 e 2 della Valle d’Aosta. Alla partenza 1200 persone, coscienti che non sarà un’edizione facile: si preannuncia un meteo impietoso, e l’obbligo di portare i ramponi fa presagire cosa aspetta i partecipanti a quello che passerà alla storia come il Tor della neve.
Una gara individuale, almeno sulla carta. Eppure la difficoltà estrema delle prove da superare crea tantissime occasioni di condivisione di questa esperienza, a volte con il formarsi di gruppi (come la notte più lunga, tormentata da vento e neve, quella tra giovedì e venerdì), altre con occasionali incontri con altri concorrenti. E poi l’incredibile numero di volontari, medici, massaggiatori, perfino un ardimentoso e generosissimo fotografo pronto a documentare il passaggio notturno nella neve.
Panorami marziani si sono alternati a viste da mozzare il fiato, capaci di ridare energia e determinazione per arrivare a quel traguardo così lontano ma ad ogni ora un po’ più vicino. Lungo il percorso fame, sonno e fatica portano talvolta ad allucinazioni, sempre gestite con l’esperienza maturata in tanti mesi di duro allenamento, capaci di forgiare la mente ancor più che il fisico ed il metabolismo. Esperienza preziosa, perché chi non ce l’ha finisce inesorabilmente la sua avventura raggiunto dal gruppo scopa o bloccato ad una delle basi vita che fungono da cancello cronometrico.
E così si arriva a passare il Malatrà, ultimo ostacolo prima dell’arrivo, dove neve e freddo (al mattino la temperatura è a -10C) portano gli organizzatori a far riposare forzatamente tutti i partecipanti fino al mattino. Così alle 7 del sabato mattina tutti partono per l’ultima fatica prima di quel magnifico, agognato traguardo finale. 146 ore, 10 di sonno in totale sono solo numeri. Perché per Mattia, come per quasi tutti gli atleti che affrontano questa prova, non è una gara, ma un’esplorazione, che se vissuta con il giusto atteggiamento diventa un viaggio indimenticabile. E quel traguardo, assieme alla gioia, lascia anche una sottile malinconia per la fine di questo viaggio.
Coloro che lo hanno provato lo chiamano il Mal di Tor, e chi non resiste torna a quella partenza di anno in anno per riprovare quelle sensazioni straordinarie, per rimettersi ancora alla prova, anche quando, come una ragazza ha detto a Mattia lungo una delle salite più dure, “It’s insane”.